TRATTAMENTO DEGLI ACUFENI:Tinnitus Retraining Therapy (TRT)

Considerazioni e innovazioni nel trattamento degli acufeni mediante tecniche di rilassamento profondo e “sound generators”. 
S. Colombo, A.R. De Caria. 
Rivista Medica Italiana di Psicoterapia e Ipnosi; 2003: vol. 1, pag. 105 - 128

Remarks and innovations in the treatment of tinnitus with tecniques of deep relaxation and sound generators

Introduzione
La Psicologia, nel tempo, ha affinato tecniche atte a controllare le reazioni fisiologiche e psicologiche attivate dallo stress. Ancora una volta può essere necessario definire il significato di questo termine, altrimenti abusato, rendendo così possibile intendere le ragioni di questo lavoro.
H.Selye ha utilizzato il termine stress per indicare una reazione aspecifica dell’organismo ad ogni sollecitazione effettuata su di esso. Da questo punto di vista, entro certi limiti, lo stress risulta essere una risposta fisiologica multifattoriale dell’organismo per adattarsi ad uno stimolo.
In un secondo tempo, R.Lazarus ha formulato il concetto di stress psicologico per identificare uno stato di iper-reattività conseguente ad una stimolazione divenuta parossistica per l’entità psicosomatica della persona. Questa condizione negativa sarebbe il risultato di una valutazione cognitiva che attribuisce agli stimoli valenze di eccesso e nocività.
Per l’individuo,dunque, è la qualità soggettiva dello stimolo a determinare la qualità della risposta emozionale e il pattern biologico e umorale da attivare.
La qualità della vita della persona e il suo vissuto divengono le condizioni determinanti il possibile punto di rottura di un equilibrio che mantiene lo stato di salute.
Le discipline terapeutiche ad approccio psicosomatico intendono studiare le possibili relazioni tra personalità, condotta di vita e patologia; suggeriscono quindi soluzioni di tipo olistico atte alla comprensione dei fenomeni e alla loro risoluzione.
Alla luce di questa visione terapeutica dobbiamo allora pensare che lo stress, entro certe misure, è per l’individuo una fonte di stimolo positivo atta a muoverlo e motivarlo, diviene negativo se non è scandito dal riposo o non è motivato da uno stato psicologico adeguato.
Prendere in cura un paziente vuole dire, allora, valutare il suo stato cognitivo e la sua condizione clinica e suggerire strategie per affrontare il suo disagio in modo attivo e consapevole.
Il contenimento degli effetti della malattia è infatti direttamente conseguente alla qualità della partecipazione alla cura. Il paziente, se non è sostenuto psicologicamente, di fronte al problema fisico o psichico che lo affligge, tende ad abreagire. Le caratteristiche alternanze tra umore ansioso e depresso sono così i più frequenti elementi di ridondanza e cronicizzazione.
Il terapeuta che si confronta con una patologia che tende a ricorrere o mantenersi, deve sapere che dietro queste manifestazioni si possono celare modalità simboliche o non verbali che affondano le loro radici entro serbatoi energetici affettivi.
Peraltro è nel corpo che noi viviamo attivamente il nostro vissuto, il percepito. Noi siamo il corpo, nel suo più alto e lato significato, con esso ci identifichiamo in un modo trasversale che lega l’immanente col trascendente.
Un programma riabilitativo, di qualunque ordine sia, non può prescindere quindi da una educazione ad una corretta valutazione cognitiva del vissuto fisico di Sé, alla propriocezione dell’interagire tra psiche e soma.
Il quadro sintomatologico della persona che è sottoposta a un eccessivo carico stressorio è caratterizzato da reazioni fisiologiche fondamentali che attivano a catena una serie di eventi potenzialmente nocivi.
Gli effetti più immediati riguardano alterazioni del ritmo cardiorespiratorio e del tono muscolare : la dispnea e la distonia muscolare protratte, in breve affliggono circolazione, postura, peristalsi.
Spesso questi schemi reattivi sono identificabili con modelli fisiologici propri del patrimonio filogenetico che inconsapevolmente vengono attivati.
Ne sono esempio lo “start reflex”e il riflesso di caduta,con il suo peculiare schema posturale (contrazione dei flessori, inibizione degli estensori) e i riflessi neurofisiologici allo stimolo rumoroso (fenomeni di allerta e disorientamento).
Si potrebbe quasi attribuire a questi patterns biologici il modello fisiologico primitivo di attivazione dello stato psico-fisico dell’ansia, reiterabile in ogni momento in cui l’individuo sente di perdere il controllo degli eventi.
La riabilitazione deve intervenire nell’identificazione dei fattori stressogeni e inibire i riflessi reattivi a essi :  l’approccio cognitivo permette di focalizzare gli elementi consci e inconsci che condizionano il vissuto soggettivo e rimodellare la soglia di tolleranza a uno stimolo, inducendo una risposta più appropriata.
Diverse sono le possibili tecniche e devono essere applicate in modo adeguato e proporzionale al grado di suscettibilità e comprensione del paziente. Queste tecniche possono essere etero- indotte da un terapeuta o auto-indotte, denominatore comune è la loro possibilità di creare una modificazione dello stato abituale della coscienza di veglia al fine di avvicinare la realtà da un diverso punto di vista.
L’approccio psicocorporeo mira a ricondizionare la cenestesi attraverso il rilassamento e indurre la meta-osservazione dello psichismo e della emotività.
In questo senso va riconsiderato il termine “trance” finora riservato a profonde modificazioni della coscienza e del comportamento, studiate dalla psichiatria (isteria,epilessia) e dall’etnologia.
In ambito psicologico vediamo infatti stati di trance meno imponenti ma non per questo meno significativi : pratiche di rilassamento profondo o di meditazione inducono comunque modificazioni neuro-fisiologiche (frequenza cardiorespiratoria, tracciati EEG) senza che il soggetto perda coscienza dell’esperienza.
La tecnica più studiata è il Training Autogeno di Schultz (TA), sviluppato negli anni ‘30, è utilizzato per l’autodistensione psichica e somatica, il riequilibrio funzionale e l’induzione di dinamismi psicologici positivi.
Secondo Freud il T.A. è in grado di superare il” muro della biologia”, cogliendo, direttamente in atto, le correlazioni fondamentali tra psiche e soma.
Il T.A. consiste di sei esercizi fondamentali di livello inferiore volti a modificare il tono muscolare, l’attività cardiaca e respiratoria e la funzionalità vascolare; in questa paradossale condizione di assoluta passività fisica si creano i presupposti per una più attenta percezione dei processi psichici e dell’affiorare dei contenuti dell’inconscio. L’ascolto e la comprensione del “dialogo interiore” che così si crea permette il superamento di conflitti che hanno perso, nel rilassamento, la  loro possibilità di indurre una reattività biologica percepita dal soggetto come minacciosa.
Il T.A. nei suoi gradi superiori, è utilizzato, con particolari temi o suggestioni, in ambito psicoterapico per favorire una contemporanea o successiva verbalizzazione di immagini interiori altrimenti non percepibili nella normale coscienza di veglia.
Per il paziente di tipo estroverso, può essere difficile padroneggiare una tecnica che fin dai primi approcci lo pone in una condizione insolita di passività e interiorizzazione. Per potere portare questo tipo di paziente verso uno stato di quiete può essere necessario dapprima ricorrere a altre tecniche che meglio assolvono a un impellente e ansioso bisogno di “fare”.
Tra queste vi è il rilassamento di Jakobson, un metodo che consiste nel fare contrarre segmenti e gruppi muscolari per poi rilassarli progressivamente in un tempo variabile.
Questi esercizi risultano validi in soggetti scarsamente consapevoli della loro fisicità e della loro risposta tonica. Sono persone che percepiscono confusamente il loro stato di malattia e disconoscono la concomitanza tra sintomi psichici e fisici. Percepire una differente qualità tra lo sforzo e la sua cessazione determina la scoperta della possibilità di uno stato di benessere, che favorisce un successivo “insight”.
A supporto delle tecniche di rilassamento, per offrire al paziente la possibilità di una valutazione oggettiva del risultato ottenuto, sono state affiancati degli strumenti di misurazione elettronica dei diversi parametri fisiologici coinvolti nel processo.
EMG, ECG, termometri, galvanometri muniti di display luminosi e segnali sonori sono i “monitors” che nel corso di sedute con Bio-feedback (BFB) rinviano al paziente in fase di rilassamento le informazioni sulla corretta applicazione della procedura.
Il BFB indubbiamente fornisce una obiettività scientifica dei risultati, quantificando e motivando un loro perfezionamento. Il soggetto si sente rassicurato nelle sue sensazioni, in quanto informato dal segnale di rinvio di una macchina che, “in qualche modo”, le rende reali.
Nell’applicare questa tecnica, non si deve indurre il paziente ad una condizione di competività con l’apparecchio e non si deve deviare la sua attenzione dal  vissuto soggettivo, per confondersi con i terminali elettronici esterni a lui. Il primato dell’esperienza del soggetto rispetto ai “valori”scientifici deve sempre essere sottolineato.
Avvalersi del BFB diventa raccomandato nel trattare soggetti estremamente insicuri della loro percezione somatica. Una “emotività” corporea non ben integrata, spesso è ansiogena e viene stemperata dalla macchina che testimonia la realtà e l’intensità del vissuto interiore.
Una avvertenza per il terapeuta è quella di non essere assorbito dal funzionamento della “sua” macchina e frapporre nel rapporto con il paziente uno strumento che rende “virtuale” la relazione terapeutica.
Alcune pratiche del mondo orientale, volte a modificare gli stati della coscienza e della fisiologia possono essere considerate le madri delle tecniche che abbiamo visto operare in ambito scientifico.Questo perché, dal punto di vista filosofico, la “Sofia” precede sempre la “Techne”.Quest’ultima è in grado di cristallizzare in meccanismi oggettivi quelli che sono i grandi temi spirituali  che animano il pensiero dell’umanità. Equilibrati valori etici e morali sembrano essere, non necessariamente da un punto di vista confessionale, il fondamento per la salute psichica e la realizzazione dell’uomo.
Discipline nate nel bacino Indo-gangetico e diffuse poi verso la Cina e il Giappone hanno strutturato un vastissimo corpus filosofico che ha le basi nella conoscenza di una pragmatica psicofisiologia applicata. Controllo del tono muscolare, della postura, della respirazione, della visceralità, sono i primi “steps” dell’adepto orientale (Hatha Yoga, Qi Qong, Za Zen ).
Sfrondati dalle strutture religiose e folkloriche che le ospitano, queste pratiche “psicosomatiche” hanno mantenuto la loro uniformità all’interno di una area culturale vastissima e millenaria.
Queste sono finalizzate al raggiungimento di stati meditativi che hanno lo scopo di realizzare l’armonizzazione dell’individuo nei suoi rapporti interiori e esteriori. La sostanziale assenza di dogmi permette l’avvicinarsi a questo diverso approccio filosofico anche al mondo culturale occidentale, se questi non pretende un primato di tipo scientifico.
Lo stato meditativo (Sanscrito:Dhiana, Cinese:Djann, Giapponese:Zen) propone una mente calma.
Tale condizione è possibile quando il soggetto stabilisce un determinato e raccolto punto di osservazione, o meta-ossevazione, dello scorrere di pensieri e emozioni senza che vi sia una completa identificazione con essi. La concentrazione necessaria perché la mente sia in uno stato di coerenza, non distratta da pensieri o fantasie, viene raggiunta fissando un oggetto di attenzione legato a qualche fenomeno corporeo oggettivo (movimenti respiratori diaframmatici, verticalità del rachide ecc.), e ritornando a esso tutte le volte che si  percepisce la distrazione. L’applicazione costante a questa pratica educa la capacità percettiva a discriminare finemente tutte le altre sensazioni o emozioni che compaiono nel campo di attenzione che si è creato. Questo decondizionamento dall’uso passivo dei sensi e dal costante divagare dei processi mentali ,“centra” l’individuo nell’osservazione dei fenomeni collocati, spazialmente e temporalmente, nel “qui e ora”, svincolandoli da attribuzioni e condizionamenti legati a ricordi del passato e ansie per il futuro.
Per gli Orientali questa possibilità nasce dal principio di esistenza di un nucleo cosciente che trascende i processi mentali e la corporeità, un definito Sé che ci abita come causa e non effetto del nostro essere. L’atarassia, fortemente voluta, conseguente alla pratica meditativa, lascia affiorare questo nucleo del Sé. Tale processo relativizza il nostro Ego, con i suoi desideri e avversioni, fonte di tanto turbamento e sofferenza.
Il percorso meditativo richiede dedizione e forti motivazioni, maturate nel riconoscimento di una nostra umana fallibilità. Fine ultimo è infatti la trascendenza e la comprensione dell’esistenza come fenomeno spirituale.
L’applicazione di questi principi alla corrente “forma mentis” occidentale può risultare difficile, anche se questi sono ormai culturalmente riconosciuti e diffusi.
Tali pratiche possono essere oggetto di speculazione e utilizzo, in ambito terapeutico, quando diventa necessario comprendere nell’immediato le conseguenze di un errato atteggiamento psicologico nell’apparire o aggravarsi di una patologia somatica. La meditazione si può così considerare alla stregua di esercizi superiori del TA, in grado di superare l’aspetto suggestivo e intervenire nella trasformazione psicologica dell’individuo all’interno di un percorso autoconoscitivo.
Diverse sono quindi le vie di mediazione corporea che permettono un accesso allo psichismo. Il loro merito è di coinvolgere in modo fattivo il paziente. L’oggettività dell’esperienza somatica non può essere negata neanche dal soggetto più difeso o lontano da psicologismi. L’immediatezza della relazione psiche-soma, che queste vie permettono di sperimentare, apre possibilità al dialogo terapeutico in modo non intellettualizzato.
Condurre alla consapevolezza dei fenomeni corporei, intesi come un insieme entro il quale noi percepiamo il nostro “essere”, riduce la componente emotiva che alimenta le sensazioni del disagio o del dolore.
L’applicazione di queste tecniche in medicina  è possibile quando si vuole ridurre la componente di stress psicologico che la malattia condiziona, o da cui addirittura deriva.
La possibilità di controllare delle risposte toniche o viscerali attivate dal dolore, e determinarne così una riduzione, è uno strumento potente per il malato.
Gli usi sono molteplici nelle patologie croniche, che il paziente riconosce come “sue”, e che da queste è psicologicamente condizionato. Sappiamo come i malati prevedono e temono l’avvicinarsi di una crisi e come attivano strategie difensive spesso penalizzanti la loro libertà. L’asmatico che si chiude in casa, il colitico che si impone diete nevrotiche, il cefalalgico rifugiato nel letto e uno smodato uso di  “farmaci” sono risposte di iper-compensazione alla minaccia del disagio.
Sapere di avere costantemente a disposizione uno strumento terapeutico che permette di rilassarsi e osservare i singoli elementi che compongono la “sindrome” patologica è, di per sé, ansiolitico; la parcellizzazione dei sintomi, infatti, ne riduce l’imponenza.
Lo spazio protetto che si crea all’interno dell’esercizio di rilassamento, è anche un momento di ristrutturazione cognitiva che permette di considerare le condizioni prodromiche alla crisi e rilevare gli errori comportamentali che hanno portato al manifestarsi della stessa.
La pratica costante del rilassamento terapeutico diviene un atto significativo nella cura di sé e struttura nel tempo un positivo spunto di apprendimento ad agire grazie al saper “non agire”.
Sul piano clinico, al di là della patologia della funzione uditiva a livello delle strutture auricolari della ricezione acustica o della otologia più classicamente intesa, nel contesto delle integrazioni delle afferenze acustiche con altri sistemi e con le capacità di elaborazione superiore, l’acufene invalidante rappresenta una reazione specifica/aspecifica dell’organismo ad una sollecitazione, non bloccata a livello inconscio e che prende il sopravvento per l’assenza di processi inibitori a livello subcorticale e corticale.
Tutto ciò indica una nuova angolatura dal punto di vista interpretativo funzionale che, superando la staticità del semplice riscontro anatomico, pone l’accento non più su singoli centri o nuclei responsabili di una specifica attività, ma si articola nel concetto di una molteplicità di circuiti funzionali e di aspetti comportamentali specializzati.

Acufeni 

Il termine tinnitus o acufene sta ad indicare qualsiasi sensazione acustica percepita nelle orecchie o all'interno della testa, senza uno stimolo esterno evidente.
L’acufene si può avvertire sotto forma di ronzio, tintinnio, scroscio, fischio o sibilo oppure può presentarsi come un suono più complesso che varia nel tempo.

Il tinnitus è un sintomo, in alcuni casi estremamente invalidante, di disordini del sistema uditivo e può essere associato ad un’ampia varietà di altre condizioni patologiche.

Il tinnitus è espressione di un malfunzionamento dell’elaborazione centrale dei segnali uditivi che coinvolge sia componenti percettive che psicologiche e può essere differenziato dalle allucinazioni uditive vere e proprie, che vengono generalmente considerate un sintomo di patologie psichiatriche o neurologiche.
 Incidenza
I dati esistenti in letteratura si presentano molto contrastanti con valori compresi tra il  6 e il 30%; tale variabilità dipende da numerosi fattori, in primo luogo dalla metodica adottata nel rilevamento dei dati, dalla distribuzione dell’età e dalla contemporanea presenza o meno di patologie a carico del sistema uditivo.
Il British National Study of Hearing ha valutato che circa il 10% degli individui adulti avverte un tinnitus spontaneo prolungato, vale a dire che dura più di cinque minuti; nell’1% è causa di notevoli disturbi e lo 0,5% degli adulti non è in grado di svolgere una vita normale a causa degli acufeni.
In Italia le stime si avvicinano notevolmente a quelle dei paesi anglosassoni (il 10 – 14% della popolazione soffre di acufeni).
Generalmente gli acufeni sono abbastanza frequenti in pazienti normoacusici (3 – 9%) e aumentano progressivamente con l’età e ciò è in rapporto non tanto alla senescenza in sé quanto alla frequente perdita uditiva.
Eziologia
Il tinnitus è un sintomo presente in diverse patologie e può avere come sede d’origine qualsiasi punto delle vie acustiche; in ogni caso l’insorgenza di un tinnitus persistente e fastidioso è considerata avere componenti psicologiche.
Il sintomo può essere associato a qualsiasi tipo di ipoacusia neurosensoriale; i deficit uditivi sono la causa determinante tinnitus nel maggior numero di casi, seguiti dall’età e dall’esposizione al rumore.
L’ipoacusia di tipo trasmissivo può essere associata a tinnitus dopo chirurgia dell’orecchio medio e miringoplastica, nell’otite media cronica suppurativa e nell’otosclerosi.
Tinnitus di breve durata può essere causato anche da un tappo di cerume, da una otosalpingite catarrale o da un’otite media.
Intossicazione da alcool, monossido di carbonio, metalli pesanti, farmaci (salicilati, chinino e suoi analoghi sintetici, antibiotici aminoglicosidici, alcuni diuretici, quali la furosemide e l’acido etacrinico) possono colpire l’orecchio interno sia nella sua porzione uditiva che in quella vestibolare, determinando acufeni.
Altre cause possono essere di tipo vascolare o muscolare. In rari casi l’insorgenza di un tinnitus persistente monolaterale può essere il sintomo di esordio di un neurinoma dell’acustico.
Uno studio effettuato in Svezia mostra che il 9% degli individui normoacusici soffre di tinnitus “sempre” e il British National Study indica che il 7% degli adulti accusa tinnitus pur non avendo deficit uditivi.
Questi dati enfatizzano il ruolo del cervello come sede primaria di percezione degli acufeni.
In un articolo pubblicato su Hearing Research, gli acufeni sono sempre associati a un aumento di attività di aree corticali specifiche. Per il mappaggio di questa attività centrale tinnitus-specifica è stata utilizzata la tomografia ad emissione di positroni, che permette di ottenere immagini della diversa distribuzione del flusso sanguigno a livello corticale durante l’abituale sensazione di tinnitus e dopo soppressione di questo, discriminando così le aree con attività diversificata nelle due condizioni. Con tale metodica, si è riusciti ad identificare i centri corticali del tinnitus nei giri medio frontale e medio temporale e in aree posteriori mediali e laterali, con netta predominanza dell’emisfero di destra; tutte queste sono zone corticali che attendono alla memoria, alle emozioni e all’attenzione

Terapia

Il problema degli acufeni è a tutt’oggi ancora aperto e insoluto per quanto riguarda la terapia. Una pietra miliare nel trattamento degli acufeni è stata la scoperta della necessità di individualizzare la cura secondo le diverse esigenze di ogni singolo paziente.
In alcuni casi il trattamento diretto verso una eventuale malattia soggiacente comporta una diminuzione o scomparsa dell’acufene, il problema insorge quando l’acufene è presente in pazienti con assenza di patologia a livello dell’apparato uditivo e con assenza di malattie organiche.
La capacità del paziente di tollerare gli acufeni è variabile. I pazienti che giungono all’osservazione clinica sono quelli che non sono stati capaci di abituarsi al tinnitus. Si stima che circa l’80% degli individui che si rivolgono al medico per “ronzii auricolari” traggano giovamento semplicemente dall’esame clinico e dalle rassicurazioni sulla benignità del sintomo. Per quelli invece che necessitano di ulteriori cure, gli approcci terapeutici variano secondo le diverse Scuole e i diversi Paesi, ma sono solitamente multidisciplinari.
Non esistono terapie univoche nel senso comune del termine, vale a dire non esistono farmaci di provata efficacia nell’attenuare o nell’abolire gli acufeni in un numero significativo di casi.
Un recente modello neurofisiologico offre una spiegazione del tinnitus con importanti implicazioni sia a livello diagnostico che terapeutico.
Basandosi sul principio della plasticità neuronale, questo nuovo metodo sostiene che il cervello è potenzialmente capace di imparare nuovi percorsi in grado di attenuare l’impatto negativo degli acufeni. Il trattamento si basa fondamentalmente su un’opera di rieducazione (retraining) allo scopo di rimuovere le reazioni emozionali ed eventualmente anche la percezione del tinnitus stesso.

T. R. T. (Tinnitus Retraining Therapy)

La TRT è un metodo utilizzato per il trattamento degli acufeni. Questo metodo associa l’utilizzo di un generatore di suono a larga banda a una terapia riabilitativa  (counselling) e richiede la collaborazione di uno specialista otorinolaringoiatra o audiologo, di un audioprotesista e di uno psicologo.
Tutti i pazienti che soffrono di tinnitus possono essere sottoposti alla TRT indipendentemente dall’eziologia degli acufeni (trauma da rumore, interventi chirurgici, cause psichiatriche, patologie di competenza internistica, ecc.).
La TRT si è dimostrata particolarmente efficace anche nel trattamento dell’iperacusia, intesa come incrementata sensibilità ai suoni, che nel 40% dei casi è associata al tinnitus.
Bisogna comunque sottolineare che loudness e picco del tinnitus non si modificano durante il trattamento; dal punto di vista psicoacustico non vi è alcun cambiamento delle caratteristiche degli acufeni prima e dopo TRT; ciò che viene modificato è la reazione negativa associata alla percezione dell’acufene.


La  T.R.T.:  l’abitudine

Questo trattamento ha l’obiettivo di decondizionare il paziente che soffre di acufeni attenuandone il grado di consapevolezza e dominando i fattori emozionali, responsabili della persistenza dell’acufene stesso.
Scopo di questa procedura non è la soppressione dell’acufene, i cui meccanismi chemio ed elettrogenetici sono ancora sconosciuti, bensì il “ricondizionamento” della sua percezione al fine di mitigare le sequele psico-affettive e neurovegetative che ne caratterizzano la dimensione invalidante.
Una parte importante del programma è rappresentata dalla “sound therapy” ovvero l’innalzamento del livello di rumorosità ambientale, attraverso l’utilizzo di un generatore di suono, per ridurre il rapporto segnale/rumore dell’acufene e facilitare così la desensibilizzazione.
Il suono erogato non deve mascherare l’acufene, poiché il paziente non può abituarsi a qualcosa che non sente, ma creare un diversivo, allo scopo di migliorare la tolleranza e ripristinare la funzione di “filtro” operata a livello cerebrale.
La TRT rappresenta pertanto una procedura riabilitativa mirata a rieducare l’area uditiva del cervello.

Terapia di sostegno (Counselling)

E’ una parte essenziale della terapia di assuefazione al tinnitus; è sempre una terapia individuale, mai di gruppo.
Obiettivo del counselling è riabilitare il centro cerebrale responsabile della percezione del disturbo conseguente al tinnitus e riabilitare le vie neuronali uditive in modo da filtrare e bloccare il passaggio del segnale legato al tinnitus stesso.
Il percorso del counselling conoscitivo si svolge in tre fasi:
1.      spiegazione del problema (al paziente vengono fornite con parole semplici  informazioni scientifiche sull’acufene);
2.      incremento della capacità decisionale del paziente;
3.      stimoli a creare modalità personali per affrontare situazioni di crisi determinate dagli acufeni.
Durante le sedute terapeutiche, viene spiegata al paziente la neurofisiologia degli acufeni con parole semplici e comprensibili, incoraggiandolo a fare domande e a instaurare delle discussioni con il terapeuta. Vengono forniti al paziente immagini ed esempi di vita quotidiana, aiutandolo a comprendere come il livello di attenzione possa essere alterato e modificato in base al diverso significato simbolico che ogni singolo individuo dà alle immagini stesse.
Una terapia di sostegno appropriata è fondamentale per iniziare e portare avanti il processo di abitudine agli acufeni.
Il counselling comporta frequentemente adeguamenti del programma, in base al cambiamento della soglia di percezione dell’acufene e in base agli inevitabili mutamenti soggettivi presentati. Questi cambiamenti orientati a: frustrazione, ansia, impazienza, temporanei insuccessi, sono i fattori che più frequentemente diventano causa di rinuncia al trattamento prima ancora che si verifichi un successo anche parziale.
Nella maggior parte dei pazienti, al counselling si associa la terapia del suono (attraverso l’applicazione di un generatore di rumore) che ha lo scopo di diminuire il contrasto tra tinnitus e attività neurale di fondo, così facendo interferisce con la capacità cerebrale di percepire il tinnitus.
“Sound Therapy”
La terapia del suono ha lo scopo di aumentare la quantità di suoni a cui il paziente è esposto al fine di favorire l’abitudine e sviluppare il processo di desensibilizzazione. Imperativo fondamentale di questo trattamento è: “evitare il silenzio”.
I generatori utilizzati permettono un controllo facile e preciso della quantità e del tempo di erogazione sonora a cui il paziente è esposto, assicurando un range di frequenza relativamente ampio e stabile. La stabilità della soglia sonora è particolarmente importante in quei pazienti che lamentano iperacusia nei quali va attentamente controllata la quantità di suono somministrata.
Se non è presente iperacusia, il livello sonoro ottimale da somministrare al paziente corrisponde al “mixing point” (intensità sonora in cui il paziente percepisce come uniti ma distinti il suono erogato e l’acufene) o subito sotto di esso. L’efficacia del trattamento diminuisce rapidamente quando l’intensità sonora oltrepassa il “mixing point”, e si riduce a zero quando si attua il mascheramento dell’acufene, in quanto è impossibile ricondizionare uno stimolo che non viene percepito.
Oltre ai generatori indossabili, esistono in commercio diversi dispositivi di arricchimento sonoro che vengono usati dai pazienti con acufeni nei momenti in cui non possono o non vogliono usare i generatori auricolari. Tali dispositivi danno al paziente la possibilità di scegliere differenti situazioni sonore (pioggia, rumori della foresta, temporale, cinguettio di uccelli, cascata ecc.) e sono utilizzati soprattutto per favorire il relax o il riposo notturno. I suoni erogati da questi dispositivi sono estremamente rilassanti e l’ascolto è finalizzato alla riduzione della risposta emotiva alla percezione dell’acufene, essendone accertato l’aggravamento in condizioni di stress psico-fisico.
A questi si aggiunge il “cuscino sonoro” all’interno del quale sono incorporati due piccoli altoparlanti con spinotto per la connessione ad una sorgente sonora (walkman o lettore cd) con scelta musicale a discrezione del paziente.
La “sound therapy” dà un aiuto significativo al processo di abitudine diminuendo l’impatto dell’acufene e l’attività neurale correlata con il sistema uditivo e dal sistema uditivo ai sistemi limbico e autonomico. Conseguentemente la forza del tinnitus e le attività correlate diminuiscono rendendo l’abitudine all’acufene più facile.

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